La violenza contro le donne è infida e riguarda tutti: ma una possibilità per uscire c’è

La recente recrudescenza dei femminicidi impone – ancora una volta – di interrogarci sul fenomeno della violenza contro le donne, soffermandoci su alcune considerazioni che possono aiutarci a comprendere meglio e, ci auguriamo, a combattere questa piaga.
Leggiamo spessissimo negli articoli di cronaca nera sull’ennesimo assassinio di donna, che “si è trattato di un raptus”, “il compagno (o ex) era un uomo tranquillissimo”, “nessuno si aspettava una cosa del genere da lui”.
Niente di più falso.

I femminicidi non sono MAI l’esito di un impulso momentaneo, inatteso e imprevisto.

Vengono dopo anni di violenze perpetrate tra le mura di casa, giorno dopo giorno; non solo violenze fisiche – in questi anni ne abbiamo viste di tutti i colori: dagli schiaffoni ai morsi, alle bruciature di sigaretta – ma soprattutto violenze psicologiche: frasi come “tu non vali niente”, “sei una pessima moglie”, “non sei capace di badare ai figli” ecc., ripetute con cadenza quotidiana alla donna e accompagnate da violenze tanto più sottili quanto più profonde, tagliando a poco a poco tutte le relazioni della vittima con la propria famiglia di origine e le sue amicizie, fino a crearle il vuoto intorno.
In questo modo la donna, legata da una relazione amorosa e malata con il suo carnefice, ben presto finisce per persuadersi di non valere nulla, di essere incapace di fare qualsiasi cosa, fino a convincersi di meritare le violenze sofferte sentendosi addirittura in colpa.
A ciò si aggiungono, spesso, violenze sessuali (mogli/compagne costrette ad avere rapporti sessuali, a volte anche con altre persone) e, quasi sempre, violenze economiche, ossia assoggettare la compagna a una condizione di dipendenza economica, mantenendo il controllo sulle risorse economiche della famiglia (tenere segreto il conto corrente, ad esempio, costringere la donna a lasciare il lavoro o, al contrario, pretendere la consegna dello stipendio ottenuto lavorando, …).
E così la donna vittima di violenza domestica si sente sola, è indotta dalla situazione, dalla paura (“se mi denunci ti ammazzo”) e dal condizionamento psicologico (“se mi denunci le assistenti sociali ti porteranno via i bambini”, “li daranno a me perché tu non lavori e non puoi mantenerli”) a non sporgere denuncia né tanto meno a lasciare il proprio aguzzino, divenuto sempre più geloso, sempre più possessivo, in un circolo vizioso che soverchia la donna offuscandole le possibilità di uscita.
Ecco perché la violenza domestica è infida e pericolosa, la donna è sempre più oggetto del partner anziché soggetto di una relazione paritaria.
Accade poi che alcune di queste donne, per una presa di coscienza spesso legata alla preoccupazione per il destino dei figli (quasi sempre vittime di violenza assistita) o perché finalmente decidono di rivolgersi a un centro antiviolenza o perché qualche volta qualcuno a loro vicino (una collega, un familiare) si rende conto che qualcosa non va e comincia a fare domande e a preoccuparsi, ebbene accade che alcune di queste donne si ribellino alla violenza e lascino il loro aguzzino, troncando la relazione malata.
Ma l’uomo non accetta, è convinto che la donna sia una sua proprietà, sotto il suo controllo, non può accettare che questa donna, la SUA donna, torni libera di autodeterminarsi, che ricominci a sognare un futuro sereno, senza di lui, finalmente libera di essere ciò che è.
E comincia a perseguitarla, a ossessionarla, a minacciarla finché, nei casi peggiori, la uccide.
Ecco perché il femminicidio non è MAI un raptus improvviso e imprevedibile e non è solo un problema delle donne.
L’assassinio delle donne da parte dei loro partner/familiari/ex è affare di tutti, deve interessare l’intera società civile, soprattutto gli uomini! E questo perché la violenza di genere (cioè contro le donne), definita dalla Convenzione di Istanbul (2011) una violazione dei diritti umani, è strettamente legata, ed anzi sostanzialmente fondata, sugli stereotipi di genere.
Quante volte abbiamo ritenuto normale un comportamento discriminante nei confronti delle donne rispetto agli uomini, sul lavoro, a scuola, in famiglia? Quante volte abbiamo pensato che indossare una minigonna sia effettivamente una provocazione per uomini dagli impulsi poco controllati? Quante volte abbiamo giudicato come normale che sia la donna a svolgere determinate attività, soprattutto in casa, piuttosto che l’uomo?
Ebbene: ciascuna di quelle volte abbiamo alimentato gli stereotipi di genere, quella cultura di genere che porta alcuni uomini – non tutti per fortuna – a instaurare relazioni affettive malate, ad assoggettare la partner, a permettersi di farle violenza credendo addirittura di averne diritto.
Nel nostro territorio cremasco è nata nel 2010 la Rete CON-TATTO per cercare di rispondere alla complessità del fenomeno mediante una rete articolata, costituita da operatori con competenze specialistiche e provenienti da Enti e Istituzioni diverse, pubbliche e private, ognuna con una propria peculiarità, allo scopo di creare un modello di intervento integrato e multidisciplinare per poter accogliere e rispondere ai bisogni della donna a 360°.
Siamo convinti che solo lavorando ogni giorno, ognuno con le proprie competenze e capacità professionali, si possa contribuire concretamente a prevenire e contrastare la violenza e aiutare chi si trova in difficoltà. CON-TATTO vuole essere in tal senso una possibilità (www.retecontatto.it).

A cura di Cecilia Gipponi (avvocato) e Maide Lotti (assistente sociale) di Rete Con-Tatto

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